Esiste un futuro per i giovani italiani?

sabato 26 marzo 2011

Una vita spesa

È difficile parlare del lavoro pur non avendone mai fatto parte. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare cantano gli Skiantos, che un bel giorno hanno detto no alla fresa e sì alla chitarra. Vantandosene.
Il lavoro nobilita l’uomo, diceva un tale che magari zappava le sue dieci ore al giorno, ma che evidentemente non stava arando mentre pronunciava queste parole; e meno male che nella sua epoca non esisteva la barbarie del copyright, altrimenti non potremmo nemmeno citarlo aver prima rimborsato la SIAE.
Espedienti retorici a parte, e tralasciando pure banalità come “è lo spirito con cui si fa qualcosa che la rende utile o meno”, con la presente affermiamo che il lavoro fa paura quando diventa un hobby come un altro, e proprio per questo un semplice e intercambiabile passatempo.
Avete presente le vecchine tanto pie, che conoscono le preghiere più rare, recitate mentre affollano le panche di una chiesa di paese? Sì, proprio loro, quelle che di fronte a delle domande, risponderebbero che sì, credono senza esitazione nel loro Dio che si manifesta attraverso la Chiesa Cattolica, nelle messe sia della domenica che dei giorni feriali, nelle tonache e nei crocefissi in un edificio pubblico.
Ora, immaginate che nel nostro paese si veneri invece Ra, il Dio-sole degli antichi Egizi: le vedreste ogni giorno in pareo a fare bagni di luce, e al posto di Caravaggio andrebbero in pellegrinaggio alle Canarie, per poterlo venerare anche  il 25 di gennaio. Con identica, saldissima convinzione, pur essendo quelle stesse persone che, in questa dimensione, rispettano con zelo i Dieci Comandamenti.
E se anche il lavoro fosse così?
Prendete una persona, allevatela nel culto di una società fondata sul lavoro, insegnatele che i poliziotti di qualche telefilm sono dei fighi pazzeschi, anche se nella professione reale non smascherano un Arsenio Lupin al giorno ma piuttosto svolgono incarichi non esattamente gratificanti, così fino alla pensione ed al meritato paradiso. Oppure prendete la stessa persona, magari più cresciuta, e sbattetela a pinzare fotocopie per tutto il giorno, a compilare pratiche di dubbio interesse o a fabbricare autoveicoli che qualcun altro guiderà. Fategli questo, e ditegli che è bene non solo per gli altri, ma perfino e sopratutto per se stessi. Mettetela di fronte a questo, senza alternative di sorta.
Creategli il deserto attorno, in modo che il lavoro appaia come l’unica oasi possibile, ponetelo di fronte all’opzione a) senza che vi sia una b). Alla fine cosa sceglierà?
Può invece darsi che, per banalissima e inattaccabile accidia, avrà semplicemente optato per il lavoro più comodamente raggiungibile, lo stipendio più sicuro, quando magari la suddetta persona aveva un discreto talento per la matematica. Ma, per mancanza di stimolo  allo studio o per assenza di possibile retta universitaria, finisce per trovarsi un impiego da piastrellista infelice.
Prendete altrimenti una ragazza [par condicio, ndr], non offritele particolari svaghi ma “solo” una possibile, futura carriera lavorativa da assicurarsi grazie a una seria e solida, preparazione-universitaria-necessaria-per-il-futuro. Non meravigliatevi se finisce per parlare ininterrottamente di esami anche il sabato sera.
Per cosa? Lavorerà, o studierà per farlo, semplicemente perché gli mancano alternative, o anche solo la voglia di cercarsele, queste benedette alternative. Oppure svolgerà compiti lontanissimi dalle sue reali inclinazioni, perché possedeva requisiti economici o di voglia per sviluppare la sua predisposizione per la matematica. O perché, con l’agognato e odiato impiego, si è banalmente trovato/a ad averci a che fare, e per quieto vivere l’ha scelto, arrivando infine a lavorare per pigrizia. Mannò, come può essere pigro chi si sbatte in ufficio anche dodici ore al giorno?
Forse lo stakanovista più incallito è semplicemente l’immagine speculare, e quindi gemella, di un disoccupato volontario.
Finisce così che labor, fatica, diventa sinonimo di niente-di-meglio-da-fare, o scambiare stelle per lampioni. Il problema non è tanto essere tutti Superman, ma sentirsi realizzati anche da Medioman.

Silvio


domenica 20 marzo 2011

Due filosofi discutono sull’Eros. Pensiero maschile e femminile a confronto

L’atmosfera in quel luogo era fumosa, offuscata dall’alcool, le parole, i sigari cubani e le sigarette con bocchino. I tavoli erano distanti sufficientemente gli uni dagli altri per rendere i discorsi degli altri presenti solo dei sibili che si mescolavano con il jazz di sottofondo, il quale riempiva gli attimi di silenzio, ma senza invaderli.
Lui fumava la pipa e lentamente aspirava e buttava fuori il fumo con una gestualità naturale, lei sorseggiava il vino color rubino increspando ogni tanto le labbra, un atto che esprimeva il suo piacere.
Tra una boccata e l’altra lui chiese, con fermezza ma senza fretta, tranquillamente: “Che cos’è l’Eros?”.
Un sorso di vino e poi lei sussurrò: “Non saprei risponderti. ogni definizione mi sembra riduttiva”. Una pausa.
Lui incalza: “Già, è difficile definire ciò che sembra sfuggirci da ogni parte”.
“L’amore forse non è un oggetto definibile”, riprende lei “e forse non è proprio un oggetto”.
Un altro sorso di vino, un altro sbuffo di fumo.
“Eppure di definizioni se ne sono tentate molte. Penso al simposio di Platone, penso a Žižek: ‘Love is evil’“.
“Oppure Radiguet”, prosegue lui “che in Il diavolo in corpo sostiene che Eros sia ‘egoismo di coppia’, per cui la distruzione, il male sono intrinsecamente presente nell’Eros. L’Eros è distruttivo nella sua creazione: è sempre contro ciò che esiste – citando Galimberti. Dunque l’Eros conserva, ma non auto-conserva: conserva altro che non è il soggetto portatore di amore”.
Lei riflette un momento. Trae un sospiro per concludere che: “No, non c’è distruzione nell’amore. Nell’amore si parla di reciprocità, di dare e ricevere. In un rapporto cambi con l’altro, nel rispetto dell’altro. Siamo di fronte a un compromesso nella fusione di mondi”.
La  musica jazz interrompe il silenzio, la voce nera si innalza forte e prorompente sugli strumenti e per un momento distoglie la loro attenzione.
“Forse stiamo dicendo la stessa cosa”, afferma lui rassicurante “C’è un io, nella sua quotidianità, più o meno apatica, nelle sue certezze, nei suoi progetti, ambizioni etc. Al suo orizzonte appare un altro che destabilizza, scardina quell’equilibrio. Cosa succede? Qualcosa va distrutto”.
Lei sorride: “Si porta allo scoperto l’indecenza. Quello che Lévinas chiamerebbe il dis-astro. Il soggetto solo è l’Altro, nell’amore l’astro si distrae da sé. È lo stato d’eccentricità dell’uomo innamorato: il suo centro è altrove”.
“Appare la nudità”.
“Cosa intendi per Nudità?”, domanda lei corrucciando la fronte.
“Nudità come nudità sia fisica che mentale. Evoca fragilità, esuberanza, paura, oscenità, pudore, imbarazzo”.
“Ma cosa ti spinge ad accettare tutto questo? Come arrivi alla Nudità?”.
“Partiamo dal principio: perché ci vestiamo?”, chiede lui con una punta di provocazione.
“Per vergogna, per proteggersi”.
“Da cosa?”.
“Da una non innocenza dello sguardo, proprio e altrui. Vogliamo evitare una violazione/appropriazione”.
“Qual è la differenza tra violazione e appropriazione?”, insiste lui.
“Ci può essere violazione senza appropriazione, violazione con appropriazione, appropriazione con violazione, e appropriazione senza violazione. Ciò che discrimina è il consenso”, risponde lei  tranquillamente. “Ma perché invece ci svestiamo?”, domanda lei a questo punto.
Uno sbuffo di fumo inonda il tavolo.
“La nudità permette l’incontro. La comunicazione implica un’apertura, una lacerazione; svestirsi è aprire, lacerare la pelle.
“Non mi piace ‘lacerare la pelle’“, lo interrompe lei “non c’è niente di più sensuale ed erotico della pelle. La pelle è porosa, assorbe ed emana, scambia, permette un passaggio, svelando e ri-velando. Se togli e laceri la pelle laceri un velo: passi dall’erotismo alla pornografia”.
“Cos’è pornografia? Null’altro che togliere il mistero all’Eros; la visione senza mistero, l’annullamento della dimensione simbolica. Tutto è riconosciuto come carne, come atto. È il passaggio dal simbolo al segno”.
“Ma allora qual è la differenza tra sesso e amore?”, domanda lei un po’ accigliata.
Lui rimane in silenzio, lascia il fumo uscire anche dalle narici.
“C’è sesso senza amore”, afferma allora lei. “Ma nell’amore l’atto sessuale è l’apice stesso dell’amore”.
“Bataille”, sussurra un attimo dopo lui “‘L’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte, e ciò tanto nell’erotismo dei cuori che nell’erotismo dei corpi: una sfida alla morte lanciata dall’indifferenza’”.
“Oppure Galimberti”, prosegue lei “‘Oltre alla morte c’è un altro modo di sperimentare il sacrificio della propria individualità nel corso della vita: è il modo della sessualità in quel suo apice che è l’orgasmo. Nell’apice dell’amore, infatti, l’Io e il Tu si dissolvono come il gioco del vedere e dell’esser visto, e questa rinuncia del proprio Io e all'immagine del proprio corpo è resa possibile dalla fiducia nell’altro, senza la quale non potrebbe essere superata la profonda angoscia che l’orgasmo possa condurre alla perdita di sé come nella morte”.  
“In effetti”, ammette lui “per l’uomo è più facile scindere sesso e amore. Il guaio è quando nel sesso si mette l’amore. Quando l’uomo si innamora va in tilt. Per l’uomo prima c’è il sesso poi l’amore, per la donna il contrario”.
“E quindi”, domanda lei con una punta di sarcasmo “voi avete paura di innamorarvi?”.
Lui ride, appoggia un attimo la pipa sul tavolo, la guarda negli occhi e avvicinando la sua mano a quella di lei le si avvicina in modo che le due paia di occhi si trovino a non più di dieci centimetri di distanza.
“Lasciamelo dire sinceramente, te lo sussurro: sì”.
Detto questo si riallontana e riprende possesso della pipa.
Per risposta lei gli sorride maliziosamente, non aggiunge altro, è curiosa di vedere come lui potrà argomentare la sua posizione.
Uno sbuffo di fumo esce dalle sue labbra e pare più che altro un sospiro.
“Con l’amore perdo il controllo sulla mia vita, su ciò che è di mio dominio. L’amore fa irruzione, è qualcosa che io non scelgo. Il momento in cui ti accorgi di essere innamorato è sconvolgente, si apre una ferita. Non lo scegli, è chance, opportunità, sfugge al controllo. Occorre a quel punto sacrificare qualcosa del proprio mondo e aprire la possibilità dell’incontro con l’altro. Questa però rimane una possibilità, l’esito non è scontato. È  una scommessa. È vertigine, è abisso”.
Lui a questo punto sposta lo sguardo, gioca con la pipa tra le dita e poi la guarda negli occhi aspettando una risposta.
“E non può essere anche bello l’innamoramento?”, lui fissa il suo sguardo in quello di lei. “Per come lo hai detto ho come l’impressione che uomini e donne vivano il momento dell’innamoramento in modo diverso. Tu ne hai parlato in termini di sacrificio. Io, da donna, posso dire che amore è lasciar essere,  senza necessità di sacrificio, accoglienza dell’altro nella sua interezza. Come dice Derrida: ‘Si ama il chi, non il che cosa’.  La donna è madre, è fatta per accogliere, e in questa accoglienza non c’è sacrificio. Amare per noi è ritrarci, non potenza”.
Lei beve l’ultimo sorso del bicchiere, si asciuga le labbra con un tovagliolino di carta; lui emette un’ultima nuvola di fumo e svuota la pipa.
La musica jazz inonda il silenzio, la voce nera raccoglie l’attenzione.

Tratto da un incontro del CdFE riadattato da

Fo Elettrica


sabato 5 marzo 2011

Alcuni elementi per un'accezione di corporeo nel Cyberpunk

La degenerazione, la trasmissione di questa e il suo proliferare sono il centro di molta della produzione di Cronenberg e in generale di ogni autore che tratta il genere Cyberpunk e ne descrivono l'effetto di diffusione della stessa fama del regista. In altre parole lo stesso genio visionario diffonde il proprio genere come un virus che prolifera nel mondo mediatico.

Per quanto concerne l'idea di cambiamento qui operata non si può parlare propriamente di metamorfosi, non si tratta di un cambiamento tout court, quale la crisalide in farfalla. Questo termine, nella sua storia ha un che di positivo riguardo la forma; anche nella più angusta sorte (si pensi al Samsa di Kafka o alla Dafne di Ovidio) la mutazione avviene da una forma all'altra in maniera completa e perfetta[1] anche se in rapporto eterogeneo con i simili. Nella degenerazione la forma rimane informe[2], muta senza una costituzione precedente bensì si costruisce come alterità, ibrido, alieno o deformità; si dà forma in guisa  di vita nuova e nuova carne, è l'emergenza della vita sotto una diversa configurazione. La nuova vita – la nuova forma generata dalla precedente morte, dal precedente eccesso- necessariamente, per essere una degenerazione propria del cyberpunk non basta essere intesa come singolarità mostruosa[3], non basta il darsi di una mutazione, serve inoltre che la deformazione continui nello spazio, nel tempo, che sia proliferante anche solo potenzialmente. Anzi, credo che si possa intuire dalla visione di Cronenberg, Romero, Tsukamoto e per l'intero filo rosso che li collega, la contaminazione esponenziale si può dare anche come semplice virtualità. La degenerazione deve comporsi in maniera essenziale con la proliferazione, non è sufficiente la mera metamorfosi per caratterizzare la quello che avviene in questa categoria estetica postmoderna.

In secondo luogo non si può parlare di semplice trasmissione, né nel senso comune di tradizione, ovvero di passaggio da un luogo all'altro, né quello che in gergo medico si denota come infezione. La neutralità di uno scambio è data solo nell'apparenza, basti anche solo pensare allo scambio metabolico: l'omeostasi di un individuo collabora sempre con la propria transistasi permettendo all'individuo biologico un incremento e un decremento di parti che tuttavia non inficiano nella pemanenza formale, solo di una modificazione che in filosofia classica viene connessa alla causalità materiale; la forma rimane le parti in più vengono rigettate e quelle che deficitano di qualche bisogno vengono saziate o rimpiazzate. Tuttavia, senza entrare in nuovi paradossi quale quello della barca che viene volta a volta rimpiazzata da pezzi nuovi fino a che non si sa quale delle due barche (la seconda costruita con i pezzi tolti dalla prima) è la barca assicurata[4], si deve ricordare che stiamo vedendo questo concetto come labirintico, in cui lo stesso Bataille aveva rifiutato in parte il concetto di individuo come essenza a se stante per introdurre una forma eterologica dell'uomo e dell'ente in generale. Il divenire-altro dell'escrezioni e il divenire-sé del nutrimento ledono il principio di unificazione del singolo all'interno di una forma fissa, la forma del singolo, estraneo ad un sistema che lo funzionalizzi omologandolo[5], è una forma-informe che produce alterazioni di sé e che informa ciò che viene a contatto con lui, se non altro attraverso quella che chiamiamo “ferita”; la comunicazione è una mutazione, non un semplice passaggio di informazioni. Si può anche leggere questo in chiave di apporti energetici, come lo stesso Bataille non manca di sottolineare[6]. Ciò che comunica trasmette una parte di energia in più[7], un proprio effluvio, una sua degenerazione, che a sua volta diventerà eccesso, energia in sovrappiù da parte di chi riceve la comunicazione, deformata. Stando anche al feedback, la reazione a seguito di ogni azione, ciò che si registra è la modificazione reciproca dei comunicanti, una comune apertura gli uni degli altri a diventare diverso, a ricevere e a dare, a divenire e trasferire l'immagine dell'altro e di sé all'altro. Nella trasmissione cibernetica non vi si trova un banale scambio di informazioni ma una trasformazione del ricevente il messaggio, il carattere labirintico che ne consegue cresce esponenzialmente quando il contenuto del messaggio è la trasmissione stessa del messaggio[8]. La proliferazione non è propria del cyberpunk se essa non ne veicola il carattere degenerativo alla base.

Si veda anche, per un approfondimento, il concetto benjaminiano di perdita dell'aura nel lavoro sul Kafka di Walter Benjamin nell'opera di Gabriele  Scaramuzza “Deformazioni incrociate”: nell'atto stesso di citare la deformazione la citazione medesima assume senso come unico modo possibile di “tenere in vita”. L'ipostatizzazione dell'originale, la sua integrità auratica, è dissociazione dall'intento comunicativo, è volontà di essere un tutto al di fuori, fumosità del trascendente alla Deleuze.

Chiariti i termini è ora possibile indagare alcune parole chiave della cultura cyberpunk (Riferite in particolare alla cinematografia di Cronenberg), che “casualmente” sono termini già incontrati nel pensiero di Bataille. L'eccesso, inteso come esperienza del limite fino al raggiungimento attuale del culmine umano[9]. L'eccesso nel cyberpunk viene ad identificarsi da principio con l'inorganico cui tende l'organico come un conato, infatti la fusione dell'inorganico si orienta -nel filo rosso preso in questione- all'interno di un linguaggio metaforicamente erotico. Non si può parlare di erotismo senza che ci sia un'apertura, ovvero una “ferita” o peggio “un'amputazione”, come dice anche McLuhan ne “gli strumenti del comunicare”; La fusione tra uomo e macchina avviene solo se s'incorre nell'amputazione delle terminazioni organiche, se ci si scontra con l'eccesso con l'inorganico, il quale ha bisogno, per connettersi di un'apertura dell'organismo all'inorganico, al macchinale. La fusione o la metamorfosi rientra a pieno titolo nella legislazione dell'incidente o nella violenza[10] (in un modo o nell'altro). La ferita sarà il segno distintivo dell'evento d' ibridazione uomo macchina nel contesto dell'incidente.
La sinestesia non è da sottovalutare come mera figura retorica. Essa è peculiare del rapporto tecnologico tra organico e inorganico, il cortocircuito della fruizione estetica passa proprio tramite quest'aspetto. Si è visto nella breve storia del brutto[11] la necessità della distanza affinché la fruizione estetica si concluda in una catarsi, fino all'estetica del novecento ove i parametri cambiano. Il gusto, il tatto e l'odorato - lo stesso Hegel[12] spiega - comportano una degenerazione in luogo del consumo dell'oggetto stesso, mentre la contemplazione audiovisiva permette di “giocare con la cornice”. Il tatto scombussola tutto, manda in corto circuito questo schema di fruizione estetica in quanto presuppone un coinvolgimento eccessivo ed una modificazione reciproca tra fruitore e fruito; la sinestesia si manifesta, all'eccesso quale pure il modus essendo proliferante -labirintico- , assurge a valvola d'immedesimazione del fruitore all'interno della fruizione stessa, senza più gioco interno-esterno, ma solo ed esclusivamente all'interno del mondo simbolico cui entra a far parte.
Proprio come diceva McLuhan infatti la televisione – evento mediatico che sia cronenberg che gli altri autori che vedremo prendono in seria considerazione – non coinvolge solo la vista e l'udito ma tutti i sensi, l'individuo è sì isolato come afferma Debord, ma ad un tempo è coinvolto totalmente all'interno del mondo di cui è spettatore attivo[13]; in questo senso il medium televisivo funge da ibrido tra l'icona e il simbolo.
L'esito della sinestesia è il soggetto ibrido. Cos'è ibrido? Ricordando la dialettica delle forme e la composizione degli esseri[14], si può dire che ogni ente concreto sia essenzialmente ibrido; non si da mai un'inseità totale che nella divinità, mentre ogni essere materiale (concreto), nella comunicazione[15] è sempre mischiato al contiguo, la sua essenza come non informe è un'astrazione come il volto dell'americano medio rispetto le altre 400 foto[16]. Ma c'é di più: ibrido non è solo essere contaminato, ma il più contaminato di tutti (o almeno il più contagiato rispetto a  altri) all'interno di un insieme di individui isomorfi, ovvero è l'emergenza, il mostruoso. Lo shockante dell'apparire di un eccesso di contaminazione/degenerazione, ovvero, ricalcando una delle immagini tipiche di George Romero, quando il morbo ha preso così tanto piede da produrre una nuova non-vita/non-morte. Il limite del quantitativo permesso viene trasgredito e trapassa in una differenza qualitativa. Cosa succede quando l'ibrido si manifesta? Nel cyberpunk, nell'horror e in ogni genere che ne tratta segna il momento in cui i due piani vengono cortocircuitati e nasce la problematizzazione[17] sia dell'altro che dell'ambiente che si pensa sotto il proprio controllo, tanto più che è un cliché della suspance la comparsa dell'ibrido proprio nel “campo di resistenza” degli “umani” all'interno dei film horror. Proprio all'interno dell'ibrido si attua un puro divenire dei due mondi antagonisti e opposti:vivo-morto, organico-inorganico, reale-virtuale in cui i due aspetti si confondono e mischiano   senza un senso progettato, un acefala sintesi in cui il coltello e la ferita si coimplicano[18].

Risposta:l'ibrido rivela un'apertura all'interno dell'astratta quanto fantomatica integralità di classe, l'aura ha già iniziato a emanare il fetore della propria decomposizione.

Nyarlathotep
 

[1]Un'eventuale segno distintivo non ne inficia la completezza ma rimane come “punctum” rivelatore di una zona morta, di un passato logico che ne giustifica ma ad un tempo problematizza lo stato attuale.
[2]Proprio nel senso batalleiano del termine “informe” delineato in Documents
[3]Mostro: dal latino monstrum, in greco φαινόμενον. Il mostro è ciò che si mostra, che emerge ed è caratterizzato dall'apparire. Il manifestarsi di una diversità dati determinati parametri è ciò che si definisce come “mostruoso”.
[4]“il libro dei paradossi” ….........................
[5]Che lo faccia diventare Organo, ovvero “strumento”, secondo la terminologia di Cronenberg in Videodrome,
[6]Il labirinto???
[7]Forma escrementizia che è pure l'arte, lo scarabocchiare è già un rovinare ed infangare tramite un sovrappiù di sé tramite l'altro ormai fagocitato.
[8]Cosa che risulta lapalissiana in Videodrome.
[9]Qui il corpo si pone come centro auratico prima dell'eccesso e luogo dell'autocontrollo naturale del singolo.
[10]Cfr. A. Caronia, Virtuale, Milano, Mimesis, 2010
[11]Cfr capitolo 1
[12]F. W: Hegel, Lezioni di estetica...
[13]Dal momento in cui ne viene a coscienza, come splicictato in Videodrome.
[14]Vd. Il Labirinto
[15]Comunicazione che è strutturalmente erotica per Bataille, cfr L'Anus Solaire.
[16]Cfr. Documents.
[17]Si pensi ad esempio alla messa in questione di che cosa sia umano nei film di George Romero.
[18]Cfr. La logica del senso. Cit.

Voce

Si sa che il blues ed il jazz sono "musica del corpo", degli istinti naturali, almeno se si vedono questi generi nel loro formarsi come sottofondo di bordelli, di bettole, come lamento di negri che avevano venduto l'anima al diavolo e si aggiravano incapaci di trovare pace tra alcool e donne nei territori del Delta.
Si può dire che Bobby McFerrin faccia anche e soprattutto blues, e jazz. E forse c'è un legame tra l'universo corporale che questi generi sottendono e la specialissima tecnica che il cantante afroamericano ha sviluppato: egli, ormai da 20 anni, si esibisce da solo, utilizzando unicamente la sua voce, al massimo  accompagnata dal suono della mano che ritmicamente batte sul petto per tenere il tempo. Gran parte dei suoi live sono completamente improvvisati e costruiti sull'interazione col pubblico. Un modo di fare musica così innovativo eppure così antico, soprattutto un modo così affascinante di concepire il corpo, come una cassa di risonanza, un oggetto sonoro, il primo, il più importante, il più profondo. Saperlo muovere, conoscerne le armonie, i battiti e farli suonare, giocare insieme, questo non è solamente l'esercizio interessante e un po' ridicolo di un ometto nero in dreadlock; è un invito, l'espressione di uno stato di grazia e la volontà di comunicarlo, di condividerlo.
Abbiamo una voce che utilizziamo dalla nascita, prima lallando, nella fase in cui ancora non esiste quasi sillabazione, figuriamoci articolazione, figuriamoci parole; poi educandola, o meglio costringendola, nella corrosiva ed inevitabile – come tutte le abitudini – esposizione giornaliera alla lingua, che ci sagoma e ci incanala; e di lì sviluppando con una raffinatezza crescente la capacità di esprimerci verbalmente. Il corpo rimane, negli accenti e nelle intonazioni, nei gesti, in tutti quegli elementi che si chiamano di solito para- o extra-linguistici; ma sembra per l'appunto relegato nelle zone marginali. Credo che dimentichiamo troppo spesso le infinite possibilità comunicative che rimangono accanto – al di qua o al di là, non fa differenza – della lingua o linguaggio che dir si voglia. Mi piace "vedere" la voce come lo strumento grazie a cui corpo e mente sono saldati, intrecciati e finalmente non più disgiungibili nell'azzeramento della parola, nell'assenza di un sistema referenziale, concettuale: quando, cioè, la voce può e sa muoversi non verbalmente, senza la lingua, in versi, canto, respiro, battiti, melodie, sibili, schiocchi, pulsazioni che vengono dal corpo e del corpo raccontano, ma (e perché ma?) contemporaneamente trasmettono uno stato emotivo, una sensazione, un universo interiore.
Conoscere se stessi potrebbe voler dire sapere fare di se stessi musica, o sapere conoscere la musica corporale che abbiamo dentro? Allora forse quando ad esempio il vecchio Bobby consiglia a chi ascolta una canzone con gli auricolari per la strada: "instead of putting it on your walkman, just sing it to yourself" ("I'm my own walkman", sesta traccia del fondamentale "The voice", 1982), ciò potrebbe significare qualcosa come "supera i limiti della lingua, supera gli ostacoli che hai dentro di te, libera il tuo corpo nella felicità sorgiva di batterlo e di farlo risuonare". Avrebbe qualcosa da dire in proposito anche il greco combattente Demetrio Stratos, che all'attivismo politico radicale associava e – vorrei dire – anteponeva la ricerca sulla propria voce, sui "limiti del linguaggio" come diceva lui stesso; sostenendo inoltre che i suoi straordinari risultati in questo campo (documentati da dischi come "Cantare la voce" o "Metrodora", dove possiamo ascoltarlo produrre diplo-, triplo- e quadri-fonie), sarebbero stati anche alla portata della gente comune, che ne avrebbe vieppiù tratto giovamento.
D'altra parte, se l'oriente soprattutto taoista appare, almeno a me, così interessante e ricco di stimoli, è anche per quella sua idea – tra le tante – ancora così elementare eppure ancora così fondamentale, luminosa, frugifera, secondo cui l'uomo deve ritrovare il respiro, quello del neonato che, ignaro di tutto, è in armonia col mondo. Inutile dire che il controllo della respirazione è alla base del canto; e che la ricerca di Stratos si soffermò a lungo sulle tecniche di emissione e respirazione orientali, ad esempio tibetane. Scendere nelle profondità di se stessi per recuperare ciò che sta sul fondo, e trovare così la sintonia con ciò che – apparentemente, solo apparentemente – sta all'esterno: anche questa è un'idea forte che domina il taoismo e le filosofie orientali, mentre in occidente arriva poco, echi nei presocratici, in Platone, in Hesse la volontà di affrontarla per davvero.
Una dimensione dove il gioco e la conoscenza, il riso e l'armonia, la corporalità e il pensiero (quello vero, distillato di corpo), l'ironia e la spontaneità, lo studio e la natura, la disciplina e la libertà non siano più in contraddizione (perché non lo sono), ma tutto insieme nella coralità di un essere che comunica mentre scende sempre di più dentro di sé. Perché capisce di non avere personalità, di non costituire un io, di essere solo una parte e per questo anche tutto. Allora la ricerca del rapporto e dello scambio diventa naturale necessità, come per l'interplay del jazz e del blues, generi che vivono dell'interazione tra musicisti, del loro essere armonia unica ed irripetibile in quel determinato momento, mentre suonano insieme, quando può crearsi quella che sembra quasi una magia, di capirsi, intendersi, seguirsi e lasciarsi, comunicare senza parole ma ad un altro livello, al di qua o al di là – non importa.

Riccardo Cavalli



O Zé Povinho. Il corpo è fermo


Scartabellando in odorosi e marci archivi, vivendo come solo l'uomo può vivere, arrancando con questo Corpo che ha preso chili, si è fiondato nei fossi, trovo questa vignetta. Tratti di matita che comprovano la Censura che imbavagliò il Portogallo durante il regime di António de Oliveira Salazar. Quella dittatura che prese il nome di Estado Novo.
La dipinse Alonso, negli anni '30 di quel secolo che fu definito breve, così breve che ancor oggi siamo qui a leccarci enormi ferite dovute a bombe, bombe, bombe.
La dipinse per Os Ridiculos, un bi-settimanale umoristico in quel di Lisboa. In Rua de Barroca fioriva la sardonica redazione.
Nella figura: O Zé Povinho crocifisso. Capo chino, una intrecciata corona adorna uccidendo il suo viso. O Zé, figura creata da Rafael Bordalo Pinheiro nel 1875 per il periodico Lanterna Mágica. è Povinho, da Povo, il Popolo, è il simbolo totemico del popolano conformista e conformato, apatico, che non è in grado di trascendere questo incubo monotono che chiamiamo Storia. E' la nostra vicina di casa con la vestaglia e i baffi, è il signore al bar che vi guarda le gambe. E' senza speranza, senza voglia di modificare le cose. E' sconforto, non è dialettico. E' la passività del popolo a cui brama il Potere.
Nel titulus crucis si legge l'acronimo S.P., riferito o a Senhor Povinho o a Sociedade Portuguesa. E' in ogni modo lampante, vista inoltre la data del timbro censorio, l'11 Abril 1933, ovvero quando entrò in vigore la Costituzione dell'Estado Novo, il voler mettere in scena, esporre su carta, la straziante sofferenza del Portogallo messo in Croce da Salazar.
Ambizione sicuramente raggiunta e resa ancor più d'impatto dalle note scritte a matita, presenti al di sopra e al di sotto della vignetta. Visto il tono di queste, si può quasi certamente presumere che non siano appunti aggiunti successivamente dai censori, ma in precedenza dal vignettista stesso. Erano una sorta di annotazioni che sarebbero state inserite, se non fosse intervenuta la Censura, all'interno della versione pubblicata.
Infatti, nella parte superiore della pagina, vi è appuntato Em Quarta-feira de trevas, Nel Mercoledì delle tenebre, chiara citazione ai versi del Vangelo E venuta l’ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all’ora nona.
E quel Ecce Trouxa, Ecco il babbeo, rimanda le nostre menti rachitiche all'Ecce Homo che Pilato disse (io me lo immagino urlare) quando mostrò Gesù Cristo flagellato ai Giudei.
O Zé Povinho icona, metafora, scherno di un popolo fermo, col Corpo in Croce.
Il Re Afonso Henriques, nel 1139, vide una Croce in cielo, in quella che fu la battaglia di Ourique. Combattimento che fece sorgere dai terreni il Portogallo come Nazione.
La Croce come struttura della Lusitania e sceglierla come perno di questa vignetta non è da leggersi come blasfemia, ma, utilizzando questo Evento cardine per i portoghesi, Alonso volle scuoterli. Quelle due assi di legno che combinate divengono martirio e dolore fungono da veicolo per una critica sagace, feroce, ma una ferocia per spronare ad alzarsi. Per staccarsi dalla Croce, e usare il Corpo contro il regime. Usare il Corpo per Vivere.
La Censura, con una matita azzurra come il cielo, gli sbatte sopra una X.
No, non poteva essere pubblicato.
Corpo crocifisso, chiodi ai piedi, saudade nel sangue che anch'esso cola. Saudade che è nostalgia del passato, che è starsene fissando l'oceano su un - come direbbe Fernando Pessoa - cais de pedra (molo di pietra).
Fermo a guardare l'orizzonte, in un mondo cucito da magnifici ricordi. Non è reale. Sei pure tu uno passivo che passiveggia con la fantasia.
E' come se il tuo Corpo fosse in Croce.

Marco Stizioli

Olympia, o lo sguardo di Pietà

“Quel corpo nudo è parso indecente;
così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela
nella sua nudità giovane e già sfiorita;
questa figlia del nostro tempo, che incontrate sui marciapiedi, con le magre spalle
strette in no scialletto di lana stinta”
E. Zola, Manet, 1867



Poco importa che Olympia sia stata una escort ante litteram (come al tempo si era ipotizzato), o, parafrasando Edith Piaf, “un’ombra della strada”. Olympia è lì, distesa sui suoi drappi bianchi che si stagliano, come il suo incarnato, su uno sfondo nero, violento. E ci guarda. Rigida, noncurante, assente. Venere moderna, fece la sua apparizione in pubblico al Salon del 1865. Non la rifiutarono, la umiliarono. Napoleone III, si dice, scoccò addirittura una frustata al dipinto. Scandaloso moralmente, fu etichettato. E perché?
Il nudo era una genere praticato fin dall’antichità e le veneri a cui lo stesso Manet si era ispirato (la Venere di Urbino di Tiziano, la Maya Desnuda di Goya) non erano certo meno “nude”. Cos’ha il corpo di Olympia che disturba tanto l’osservatore benpensante? Tante sono state le ipotesi. Anzitutto, il problema non pare essere tanto contenutistico (il nudo in sé), quanto formale: è l’interpretazione che Manet dà del tema ad essere problematica. Manet attualizza, cala nella realtà, nella quotidianità. Umanizza. Olympia non è una dea, è una donna, come ce ne sono tante, e anche abbastanza brutta (dicono alcuni). E’ una donna che non solo mostra senza particolari pudori il suo corpo, anche nelle sue imperfezioni, ma lo fa con estrema libertà e, perché no, anche con una certa qual dose di malizia e vanità. A questo va aggiunto il dato tecnico-estetico: “tinte piatte, grande pittura alla giapponese” (Foucault, La pittura di Manet) e la grossa questione riguardante l’illuminazione.
Facciamo caso: da dove proviene la luce che illumina Olympia? È frontale. Ma frontale significa esterna al dipinto. E chi c’è fuori dal dipinto, proprio di fronte? Ci siamo noi. La luce è negli occhi dello spettatore, nel suo sguardo. È l’occhio del benpensante che rende la nudità di Olympia visibile, che la spoglia. Foucault ha ragione, questo è lo scandalo. Lo scandalo è negli occhi di chi guarda, non nel corpo. Il corpo, come dice Zola, non è altro che carne. Ma dove entra in gioco lo sguardo in ballo c’è molto di più. “Lo sguardo è sempre il luogo di una doppia rivelazione: in esso senza dubbio si rivela ciò che viene guardato e di cui ci si prende così cura, ma contemporaneamente qui si rivela anche il modo d’essere del soggetto grazie al quale c’è rivelazione, modo d’essere che appartiene alla misura stessa della sua esperienza” (S. Petrosino, Piccola metafisica della luce). Senza entrare nei meandri della psicologia, senz’altro lo scandalo provocato dal dipinto  ci rivela il profondo imbarazzo della società borghese dell’epoca di fronte a una nudità(mediocre), da tutti ben conosciuta, ma mai socialmente accettata. Si fa, ma non si dice. E l’essere di fronte a quella tela era come essere colti in flagrante, il ritorno all’istante dopo la cacciata dal paradiso terrestre: il fantasma, il rimosso è lì, appeso alla parete. E vi fissa. Imbarazzante.
Ma perché la nudità, la corporeità, la sensualità sono fantasmi? Perché un corpo nudo può imbarazzare a tal punto, se privato di idealizzazione? “Come è possibile, se è possibile, guardare e rappresentare- certo, senza alcuna volontà di abbellire o perfezionare, ma anche senza alcuna curiosità frivola e senza la fissità della concupiscenza che così spesso indugia sugli spettacoli crudeli e sulle imperfezioni- la nudità?”. Clark Kenneth, parlando di alcune acqueforti raffiguranti nudi femminili di Rembrandt, scrive: “Che cosa aveva in mente quando sentì il bisogno di effigiare quel penoso spettacolo della nudità umana? Innanzi tutto, senza dubbio, una specie di onestà ribelle. […] un altro impulso lo aveva spinto a fare quelle acqueforti: la pietà. Per Rembrandt, il grande interprete della Cristianità biblica, la bruttezza, la povertà e le altre disgrazie della nostra vita fisica non erano assurde, ma inevitabili; forse egli le avrebbe definite naturali e capaci di accogliere la luce dello spirito perché svuotate di ogni orgoglio”.
 Forse è a questo sguardo, di pietà, che Manet invita l’osservatore. Pietà svuotata di orgoglio, pietà come capacità di avere a che fare con l’”altro”, ciò che è escluso, ciò che è rimosso, ciò che non si vuole vedere, ma c’è. E va guardato con grazia, senza ipoteche, va accolto nella sua alterità, in cui comunque siamo inesplicabilmente implicati. La sua esclusione, il volgere lo sguardo ad altro, per non vedere, dice di uno sguardo che non solo non vuole vedere, ma non vuole vedersi. Non vuole vedersi e non vuole farsi vedere. Guardare quel corpo, è guardare il proprio corpo. Accettare quel corpo, è accettare il proprio corpo. Con grazia, senza orgoglio.
Impariamo ad usare a Olympia la pietà che dovremmo usare a noi stessi.

Rachele

La Paura di Amare

Estratti da "Un coeur en hiver" di Claude Sautet (1992)

Un sentimento come l’Amore viene descritto come quel sentimento capace di spazzare via ogni barriera, invincibile dominatore dello stato d’animo è il baluardo della forza, del coraggio, della volontà di arrivare sempre in fondo, di non arrendersi.
Esso rappresenta già un passo oltre il Sé, una rottura del proprio solipsismo nel movimento verso l’Altro: l’Amore è una scelta, la decisione di aprire le porte della propria intimità ad un Altro, un essere distinto che viene consacrato come unico idolo sull’altare del proprio cuore.
Ma se l’Amore, l’Amare è scelta, si potrebbe però anche indirizzarsi verso la non distruzione del proprio guscio a favore di un rintanarsi in se stessi, tanto più sicuro quanto più si configura come un rifuggire dall’Altro che pure può offrirsi a noi, come un rimanere solo osservatori di un qualcosa che sarebbe potuto essere, ma che non è, o che forse è sempre esistito, ma solo in sogno.
Si sogna infatti di avere una persona accanto, si invidiano coloro che condividono la propria strada e che si sostengono a vicenda, in salute e in malattia.
Molte volte,  si sogna solo.
Già, perché nella propria esistenza questa fantomatica persona non compare ancora, si lascia attendere. Non è questione di aver paura, non è scelta, non è difendersi da un presumibile dolore, è solo il destino che abbandona a se stessi, che non permette possibilità, che impedisce la strada all’Amore nel nostro cuore, o meglio, che lascia soli come cani.
Solo come un cane è anche Stephane, costruttore di violini, destinato a restare per sempre unicamente colui che vive in disparte, artefice indiretto della musica, ma mai sul palcoscenico, puro osservatore, mai protagonista.
L’Amore non può sfiorarlo, non lo ha mai fatto, mai lo farà.
Per questo decide di sedurre chi effettivamente si trova sul palco, ovvero Camille, violinista di successo, e di mantenere nel contempo, nonostante il suo atto di seduzione che è quasi un atto di sfida, di rivalsa nei confronti del proprio essere artigiano e non artefice dell’Arte, il suo ruolo: egli è il costruttore di violini, e il liutaio non è violinista, non vive sulla scena, ma resta dietro, e questo dietro non si riferisce alle poltrone, nemmeno al backstage; egli infatti si situa ancora prima, tra l’albero e lo strumento. Stephane è perciò consapevole a priori dell’impossibilità di un legame tra chi si trova alle origini, nel luogo della creazione della possibilità dell’Arte, e chi invece dell’Arte ne è esecutore, ovvero chi dell’Arte vive, ne fa un’emozione e la trasmette. E questo è semplicemente il suo destino, non si discute.
Eppure sorge spontaneo domandarselo: cosa accadrebbe se in una situazione del genere l’Amore si infiltrasse per vie nascoste nel gioco di seduzione di un uomo irretito nel suo status esistenziale? E se una donna forte e bella scoprisse infine che dietro quel volto scettico e provocatorio, quel cuore di ghiaccio si nasconde una personalità speciale, unica e irripetibile?
Semplice: un bel niente.
A simili vette innevate il disgelo che può portare ad un battito cardiaco è lungo da darsi, quasi impercettibile. E la sensibilità anch’essa è quasi irrecuperabile.
Per Stephane evidentemente l’Amore non basta, ma del resto egli neppure sceglie, semplicemente resta irrigidito sulle sue posizioni, e nemmeno si può far accenno al suo destino, perché è stato proprio quest’ultimo a fargli incontrare Camille.
È chiaro pertanto che il mito dell’Amore forte e imperituro va sfatato: l’Amore non fa proprio un bel niente di per sé, se una persona è terrorizzata dal contatto e congelata nella sua non-accantonabile concezione del mondo allora esso può bensì attraversarla, ma senza alcun risultato.
Pertanto, se proprio c’è bisogno di parlare di un sentimento che muove effettivamente gli animi, allora è necessario riflettere sulla Paura; infatti essa è decisamente una vera leva dell’animo umano. La Paura trascina vorticosamente nelle sue reti, incastra, imbriglia, rende quasi impossibile l’idea di liberarsene, al punto che si dimentica la sua presenza in se stessi e semplicemente la si vive come una condizione esistenziale, una premessa irrinunciabile, un assioma ineliminabile. La Paura, come scrisse Kierkegaard prima di Heidegger, ha sempre un oggetto determinato e pertanto riguarda la dimensione inautentica del nostro esistere. La “paura di qualcosa” porta infatti in sé la consapevolezza da un lato di ciò di cui si ha paura e che paralizza e dall’altro, parallelamente, del fatto che si è pienamente colpevoli di quel sentimento, che è sì immobilizzante, ma teoricamente superabile, dato che l’oggetto, o evento, scatenante è conosciuto. L’emotività della Paura che coinvolge l’uomo porta verso un non-senso, un’autocontraddizione nella natura stessa del soggetto umano, perché egli soffre del suo terrore, che pure potrebbe abbattere.
Stephane ha così paura dell’Amore, paura di Amare, e si barrica nel suo muro di cristallo con le scuse di un carattere difficile, un cuore imperturbabile, un destino già scritto. Ma scoprirà - troppo tardi? - che la paralisi della Paura non abbatte l’Amore una volta che esso si è fatto strada anche dentro un cuore arido come il suo, bensì che essa rende l’allontanarsi di quest’ultimo solo più sonoro, doloroso, irrefrenabile.

Fo Elettrica

Non c'è Amore

Non c’è amore aldilà del fiume.
Un fiume lungo, turgido, cristallino.
L’acqua è trasparente, senza pietà.
Le pietre sono cosi visibili,
ognuna con una sua scusa da dare.
I pesci sguazzano, tutti rossi,
alcuni color oro, altri blu.
Si confondono con le infami acque.
Il giovane si tolse le scarpe e lentamente,
rabbrividendo,
entrò nel corso d’acqua dal moto leggero.
Procedeva piano, meditando ad ogni passo
e ad ogni passo
si ghiacciava i piedi.
Posò un piede sull’erba
e non è questo in fondo l’amore?

Marco Stizioli

Amore e nostalgia: la teoria dell'imbarazzo


“T’amo, come amo la volta notturna,
anfora di tristezza taciturna,
più fuggi, bella, e più forte io sento
amore; tu, delle mie notti ornamento,
vai scavando con ironia distanze
tra i miei sensi e le azzurre lontananze.
Vengo all’attacco, all’assalto ritorno
Come su un morto i vermi tutt’intorno.
T’amo, animale crudele che offende,
t’amo nel gelo che bella ti rende.”
(C. Baudelaire, I fiori del male,
“XXIV - T’amo, come amo la volta notturna”)

Tendere una mano verso l’Altro, cercare di toccarlo e con questo stesso atto di svelarlo, di scoprirne il segreto e di farlo proprio: questa è la carezza erotica, la carezza che cerca e che fruga, che “esprime l’amore ma soffre di un’incapacità di dirlo”. La stessa carezza che non sembrava appagare Lévinas, ma di cui lui stesso non poteva fare a meno. La voluttà infatti non arriva a colmare il desiderio, ma rappresenta il desiderio stesso. Un desiderio di ricerca dell’Altro che non contempla un completamento ma si dilania in se stesso ampliandosi senza mai trovare una fine. Scoprire il segreto dell’Altro vuol dire infatti scoprirne l’infinità, e dunque comprendere, con dolore, che non sarà mai possibile dissipare quelle tenebre che lo circondano, che il mistero non verrà mai svelato, che il mio andare verso di lui sarà sempre un salto nel buio, una miscela terrorizzante di imprevedibilità e possibile rifiuto.
Eppure la carezza dell’uomo non si arrende, continua imperterrita il suo viaggio sul quel corpo, nel tentativo di profanarne l’anima serrata fra le membra calde e lucide, mentre l’Amore resta in silenzio, perché la nudità erotica dice l’indicibile, quell’indicibile che ognuno può comprendere, che non solo scalda cuore, ma lo infiamma.
Quello che sorge è così un sentimento di lontananza, di incolmabili cieli stellati che dividono due cuori anche nel momento della massima unione. Questo riporta alla mente miti lontani, come il racconto di Aristofane sull’Amore: “Ciascuno di noi è […] come la metà di un uomo intero: infatti, è stato tagliato come accade alle sogliole, da uno in due; e ciascuno, quindi, cerca sempre la metà a lui corrispondente”. Ognuno di noi ricerca il suo Altro, quella metà da cui è stato brutalmente diviso, quella metà per cui prova nostalgia.
Sì, Nostalgia. Nel cuore dell’uomo è infatti come se uno spazio fosse già stato preparato per percepire, dicendola con Platone, mancanza, insufficienza, bisogno e nello stesso tempo desiderio di acquistare e conservare ciò che non si possiede. E questo è l’Amore. L’Amore è percezione di una mancanza, ma se qualcosa manca è perché in qualche modo lo si era già posseduto: l’Amore dunque è nostalgia.
Si soffre del fatto che colui che si vorrebbe conoscere meglio di se stessi è irrealtà irraggiungibile, si soffre della distanza dall’Altro, tanto materiale quanto spirituale.
Forse è per questo che per l’uomo è più facile fare unicamente accenno alle differenze inconciliabili e alle lontananze impercorribili. In questo modo si surclassa il bel dolore della ricerca e la sua fatica facendo perno su quello che dovrebbe essere l’oggetto del lavorio continuo del proprio animo: la Diversità, ovvero la dote e la qualità dell’Altro che più fa paura. Ma se la diversità non si accetta allora restano solo terrore e rabbia legate alla propria incapacità di comunicare e a quella dell’Altro, e il rapporto con l’Altro diviene un conflitto interminabile destinato a vedere perdenti entrambi i partecipanti. Standard di normalità diviene così una sorta di “relazionalità della sopravvivenza”, in cui si punta al minore coinvolgimento emotivo, al mantenimento del proprio orgoglio additando la pretesa di voler nonostante questo comunicare con l’altro e alla totale solidità di se stessi, una solidità a cui l’Altro deve aderire perfettamente.  
Abbiamo paura. Paura di soffrire, di non essere corrisposti e allora ci adagiamo nella massificata superficialità esistenziale che senza troppi fronzoli ci viene regalata ogni giorno dal mondo in cui viviamo.
Eppure Amore è smussare gli angoli, andare incontro all’Altro, cercarlo, tornirlo con le proprie braccia, difenderlo, semplicemente, amarlo. Amore non è un’intenzionalità di svelamento, ma di ricerca, è accorgersi del pudore dell’Altro, dove il pudore non può essere svelato, come un segreto –  si è visto che non si può – ma solo profanato, violato. Il pudore così risveglia la non patologica reazione nei confronti del tentativo di relazionarsi e comunicare con l’Altro nel momento in cui si sorpassano le prime muraglie difensive: l’imbarazzo. L’imbarazzo è infatti abbassare lo sguardo per la vergogna della propria violazione, riconoscere la difficoltà dell’abbattere il proprio orgoglio per parlare con l’altro, accettare di non poter mai comprendere appieno chi ci sta di fronte e di sbagliare, magari anche riderci sopra. In una società come la nostra, una società senza pudore, l’imbarazzo è dunque un nobile atteggiamento e simbolo di innocenza e purezza che potrebbe essere considerato una nuova virtù, la virtù di chi ha deciso di Amare.

Fo Elettrica

Da ascoltare alla fine: