Esiste un futuro per i giovani italiani?

giovedì 21 luglio 2011

"La verità è che sono cattivo"

“Scegliete un futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così?”

Un inseguimento, una corsa verso un futuro ignoto. Così inizia Trainspotting, con un crudo monologo pronto a lacerare tutto ciò che nel nostro tempo è positivo. Ciò che è il Bene, bene non morale, ma il bene economico della società consumistica, agli occhi del protagonista non è che il Male, la noia, il costante ripetersi di giorni sempre uguali, tutti vissuti in compagnia della solitudine.

Per fuggire da questa società alienante, i più vendono la loro anima all'alcool, al fumo, alle droghe più pesanti. Così facendo, vengono emarginati ancora di più dalla società stessa. Il nostro lessico ha mille modi per definire questi "disadattati": tossico, drogato, alcoolizzato, ubriacone,... Parole che evocano il disagio, la malattia, la morte.

Svevo aveva un bel modo di definire coloro che lavorano sodo, i “buoni” del nostro tempo. Per lui, questi sono i sani. Ovviamente, malato è dunque chi si lascia trasportare, colui che non agisce, ma  guarda. L'artista, l'inetto, il Tonio Kroger dei nostri tempi. Eppure, i grandi pensatori della Scuola di Francoforte ci ricordano che esistiamo tutti come target ultimo di un'anonima massa di lavoratori il cui scopo è modificare la cultura a fini di lucro. Lo chiamano Marketing.

Dove risiede quindi il Male? In questi agenti pubblicitari, in chi è oggetto del loro lavoro, in chi rifiuta la società o nella società in sè?

Per un cristiano, il Male è mancanza di Bene, proprio come la Tenebra è l'assenza di Luce. Esiste infatti questo dualismo nella mente umana, per cui si definisce una cosa in base a quanto un'altra sia presente o assente. Se si volesse eliminare del tutto il Male, bisognerebbe istituire un Bene assoluto. Purtroppo, esisterebbero comunque delle gradazioni, proprio come nell'Empireo dantesco.

Se esistesse sempre un Altro in grado di inquinare l'Essere, un sistema gerarchico risulterebbe valido. Il problema è che esiste un elemento che non ha opposti, ovvero la Tecnica. "Eliminare la Tecnica presuppone un atto tecnico, non naturale." disse il prof. Galimberti, di conseguenza non è valida l'ipotesi che la Natura sia un valido Essere positivo, essa è tale solo in base alla nostra percezione personale. Giungiamo quindi a questo problema: se l'uomo può scegliere, il Male è assoluto o è relativo?

Se il Male fosse assoluto, allora potremmo avere un metro per quantificarlo. Non ne abbiamo, poichè se ci fosse un accordo tale tra gli uomini, non sorgerebbero dibattiti riguardanti l'aborto, l'eutanasia, la fecondazione assistita. Ne consegue che il male è relativo, mentre la discordia tra gli uomini su argomenti di tale portata ha l'unico fine di aumentare il conflitto già esistente tra le varie autocoscienze.

Come infatti sostiene Hegel, l'Uomo non è un essere naturalmente socievole, ma gli è necessaria la convivenza con gli altri per garantire il soddisfacimento dei propri bisogni. Il contratto che protegge ciascun uomo dal suo simile ha però questo svantaggio: ognuno ha abbastanza libertà per decidere di non rispettarlo. L'illecito, il reato, l'azione di danneggiare l'altro è quindi la manifestazione del Male.

Questa ha necessità di un'intenzione alla base, una volontà libera di compiere il reato ledendo il diritto altrui. Essendo l'Uomo libero responsabile delle proprie azioni, è dunque anche responsabile del Male che compie, un Male definito tale nei limiti del diritto. Questo ultimo è già di per sè caratterizzato dal costante mutamento, al fine di regolare i rapporti umani in base alle necessità dello Stato. La percezione del Male è relativa, storica, modificabile e, purtroppo, influenzabile da agenti esterni, quali gli operatori dell'industria culturale.

Questo solleva tuttavia una domanda fondamentale, ossia: è l'Uomo malvagio in sè?

Se l'uomo fosse essenzialmente portato al danneggiare sè stesso e gli altri, la posizione cristiana non sarebbe valida, in quanto antropologicamente ottimistica. Se invece l'uomo non fosse malvagio, sia che fosse un essere neutro o fondamentalmente portato al Bene etico, il Male risiederebbe quindi nella società, nella cattiva politica ed educazione. Educazione non solo scolastica, ma intesa a tutto tondo come trasmissione di valori culturali, morali e economici.

Sara G. non ha dubbi: "La malvagità è dentro di noi: è un elemento immanente della personalità dell'individuo e di ciò che fa parte della sua formazione mentale. È solo la differente quantità di questo elemento o meno a definire se saremo visti come buone o cattive persone."

Eppure, c'è chi sostiene ancora sia la società a costringere l'uomo alla perfidia. Questa posizione si basa sull'idea kantiana che l'uomo sia responsabile del male che compie, sia questo nei suoi confronti o nei confronti altrui. La tesi del male come scelta più o meno consapevole è molto interessante, perchè in questa risiede una certa speranza nel futuro. Inoltre, questa posizione permette di riconoscere elementi scatenanti il male umano, quali l'Odio e l'Indifferenza.

"Agire guidati dall'Odio, questo vuol dire essere malvagi. L'azione, poi, non deve necessariamente essere contro chi o cosa ha generato l'odio, anzi, uno è davvero malvagio quando scarica la sua frustrazione su chi non merita cattiveria. […] Ci permettiamo di farci piagare finchè l'essere pervasi dalle emozioni non ci fa esplodere l'uno contro l'altro." Infatti, ci viene ricordato che "non è l'estensione del danno a definire il male, ma l'intenzione primaria di chi lo vuole compiere." Non è Kyle Searles a fornire l'unica risposta possibile riguardo le manifestazioni esterne del male. Sarah G., infatti, ha un'altra idea.

"[Il male si manifesta] Semplicemente, ma tuttavia dolorosamente, nel non interessarsi assolutamente delle altre creature solo per continuare ad essere un maledetto edonista. In fondo, nessuno sarebbe malvagio, se non ci fosse da divertirsi."

Chantal Frattini

lunedì 11 luglio 2011

Se non lecchi le dita....

“Bisogna preservare la vita”. Perché? È così importante? La vita è un bene? Siamo così dipendenti dalla vita (per la vita) da volerla sopra ogni cosa?
Anche quando non si tratta della propria ma dell'esistenza altrui, si pensi al tipico esempio del feto, esso è importante che sia una vita umana affinché si ponga la questione.
Ogni dubbio bioetico riguardo la persona è per lo più influenzato da questo discrimine: “è quest'esistenza una vita umana?” ponendo così aperture nel caso di risposta negativa. L'importanza della vita viene spesso fatta coincidere con la perpetrazione di un dato di fatto “conveniente” la propria natura, è bene che la natura che pone la domanda sia conservata, anzi che si potenzi, reiterando la domanda stessa sul problema assiologico. Ribaltando un poco la questione, perché è meglio essere che il nulla?

Da una parte infatti il nulla è meno “violento” dell'essere stesso, pur nel suo annichilire rigoroso nel proprio ventre disperso. Il nulla sembra fagocitare l'esistente come il mare che lambisce la terra sopra cui l'uomo può stare sicuro sopra i suoi piedi (e porre domande), proprio per questo il “mare” – si pensi alle popolazioni semitiche – è stato spesso in assonanza con “male”. Il mare per la sua incontrollabilità, la sua passione dei venti, l'inghiottire navi e disperderne il contenuto nonché equipaggio, il gonfiare i cadaveri deformandone la figura umana e accelerando l'opera di putrefazione, si oppone alla terraferma dove l'uomo può ripararsi, può cacciare, costruire opere che si suppone poter reggere in eterno data la stabilità del terreno.

Sembra proprio che il tema del fagocitare, la manducazione dell'uomo, sia l'immagine che più atterrisce i viaggiatori che si muovono su imbarcazioni; c'è qualcosa che atterrisce nell'idea di “essere divorato” che colpisce notevolmente l'immaginario umano, additando come malvagio colui che lo opera e non è legato solo al fatto di essere una minaccia, è l'antropofagia (anche solo virtuale)  quella che inficia il sentire relazionale. La manducazione è violenta, distrugge per iterare l'esistenza del distruttore, è l'ardere del fuoco che perpetua la sua fiamma. Il mare è violento (pericoloso) come il lupo che però si nutre di viventi per sopravvivere, mentre il secondo lo fa per necessità, il primo ne è indifferente. Il mare è così l'ideale di sadico del famoso quanto terrificante marchese francese, il lupo invece è costretto dal bisogno di sfamarsi per continuare ad esistere nella propria forma per uccidere. Si vede subito che l'analogia non è perfetta, che manca un elemento di discrimine dato dalla necessità unita al desiderio, alla brama di esistere oltre lo sforzo di non sfamarsi, in cui l'istinto porta alla fine a cedere al bisogno del cibo, consumando se stessi in definitiva. La brama di mangiare così è un corollario aleatorio della volontà di vita, il desiderio (o bisogno) di mangiare diventa una necessità affinché quell'essere che viene fuori dal disastroso ma ordinato e omogeneo nulla persista. Così la vita diventa complice di quella manducazione universale che è il mondo della catena alimentare: un grande ristorante in cui i più piccoli sono le portate dei più grandi e quest'ultimi, giunti al loro eccesso (fuori dalla propria forma/struttura/essenza) diventano “cibo” per i più piccoli, chiudendo così l'anello della catena.

L'anello si reitera attraverso questo cibarsi, la vita si alimenta tramite la morte di altri individui e così quello che avevamo pensato essere bene, diventa un'ombra rispetto al gigantesco male (si pensa oppositivamente che il male sia la non-conservazione dell'ente) che permette la sua esistenza, così il bene (conservazione o corroborazione) di un essere si rivela essere il male di molti altri individui!

Sembra assurdo, ma non siamo ancora arrivati all'estremo: l'uomo, di quest'essere, che è causa di catastrofi a catena “semplicemente continuando a esistere”, s'innamora e  dice “voglio il tuo bene”.

Nyarlathotep

lunedì 4 luglio 2011

Carta Straccia: quando il male è sempre altrove


È estate e il diavolo che ho in corpo mi consiglia di leggere il nuovo libro di Giampaolo Pansa: Carta straccia, il potere inutile dei giornalisti italiani.
La tesi di fondo del giornalista è che la cricca di Repubblica, l’Espresso, Fabio Fazio, Serena Dandini, Santoro e via dicendo, rappresentano la vera macchina del fango, tutti tesi unicamente a voler demolire il Cavalier Berlusconi attraverso scorretti metodi giornalistici. Per questo sono mezzi di informazione e presentatori noiosi, inutili, ritti e impettiti su posizioni conformate: letto un numero, vista una puntata, le hai viste tutte. Pagina dopo pagina, Pansa tenta di distruggere il mito dell’aitante Travaglio e dei suoi prodi amici, accusandoli di aver creato e alimentato il clima d’odio in cui è sprofondata l’Italietta in cui viviamo. Cita esempi recenti, tirando le fila di un giornalismo malato, mai obiettivo e tremendamente banale.
Terminato il volume, provo a tirare le somme di quello che ho capito e mi trovo a concordare con lui. Ha ragione: il disgustoso modo in cui certa stampa getta letame contro Berlusconi, usando ogni minimo pretesto per macchiarne l’immagine, disgusta pure me. Trovo Repubblica un giornale mediocre, sempre uguale a se stesso, che imposta la notizia non come ricerca ma, partendo da un’opinione stabilita a priori (Berlusconi è cattivo), gli articolisti costruiscono il loro pezzo. Santoro è maestro del vittimismo, vive credendosi eroe della libertà contro fantomatiche dittature. E Fabio Fazio, la Dandini? Intervistano i soliti noti, tutti con le stesse idee radical-chic, tutti pronti a rassicurare il pubblico che li segue: “Noi siamo nel giusto! Gli altri sono trogloditi ignoranti” sembrano dirci in ogni puntata.
Ma – c’è sempre un ma se si vuole provare a giungere ad una verità - Pansa, si dimentica (volutamente?) di far le pulci alla parte opposta, alla Destra, a quelli che la Sinistra considera il male. Lo scrittore critica l’ingresso in politica di Santoro, della siliconata Lilli Gruber (entrambi europarlamentari a metà anni 2000) e di Marrazzo, ritenendoli a ragione poco esperti della cosa pubblica per affrontare questo ruolo. Stranamente non cita la Carfagna, la Gabriella Carlucci, Iva Zanicchi…  Tre esempi di showgirl salite con forza sul carro del Pdl. Che esperienza può offrire la Iva nazionale nel parlamento europeo? Che cultura politica possiede?
Pansa attua, nel suo libro interessante, soprattutto quando divaga raccontando un passato giornalistico a cui noi nativi digitali non siamo avvezzi, la strategia che tanto critica: il pensiero unilaterale. Nelle sue scorrevoli quattrocento pagine gli sfugge di criticare il Metodo Boffo, definendolo quasi un giusto esercizio di difesa contro “i sultani rossi”, o i rozzi titoli dei suoi cari amici Feltri e Belpietro (uno tra tutti Lasciatelo lì! riferendosi alla salma di Vittorio Arrigoni).
Pansa usa la penna per smontare l’avversario, tanto quando fanno i giornalisti di Repubblica. Non volge mai lo sguardo verso di sé, verso Libero per il quale scrive. “È l’Altro il cattivo, è l’Altro il male” pare urlare dalle fitte e ciniche righe della sua scrittura.
Come si può pensare di uscire da questa situazione di impasse in cui l’Italia è sprofondata, se si disapprova il comportamento di una sola parte, e non dell’altra? Il male è il male. Sempre. Il buon giornalismo, invece, dovrebbe nascere dal dubbio, dalla sola certezza di sapere che non si sa nulla e, per questo, si cerca la verità insieme al lettore.  
Il libro di Pansa non porta niente di nuovo lungo i litorali italiani e si qualifica come un’occasione persa per il giornalista che, dall’alto della sua cinquantennale esperienza, avrebbe potuto davvero offrirci una lezione di etica giornalistica.

Marco Stizioli